Ho assistito alla proiezione del film di Julian Schnabel sugli ultimi anni della vita di Van Gogh, dal soggiorno ad Arles fino alla fine dei suoi giorni. Ne sono uscita turbata.
La personalità complessa e disturbata di Van Gogh viene rappresentata in tutta la sua disperazione. L’autore di tanti capolavori non fu mai apprezzato in vita; dovette fare i conti con la solitudine e l’ignoranza del suo tempo.
La sua ostinata passione per l’arte, che egli stesso definì l’unico talento ricevuto da Dio, non venne capita dagli abitanti del piccolo paese di Arles nel quale andò a vivere per un po’ di tempo alla ricerca di nuove luci e di colori più brillanti e lo cacciarono.
Beveva molto, si lavava poco, abitava in una stanza spoglia, aveva difficoltà a rapportarsi con le persone; anche con l’amico Paul Gauguin che visse da lui per un po’ ebbe una relazione tormentata che lo portò a tagliarsi un orecchio quando gli comunicò che sarebbe partito.
Egli si rifugerà in un ospedale psichiatrico dove in 80 giorni di permanenza riuscirà a dipingere 75 quadri. Era veloce nell’esecuzione, per lui era l’unico modo per trovare pace: stendere colori corposi, catturare l’attimo nel quale c’era la luce giusta.
La colonna sonora è martellante, insopportabile a tratti. L’inquadratura bassa fa immedesimare nel personaggio, nei suoi passi veloci alla ricerca del luogo giusto per dipingere. Gli scontri con le persone del posto mettono a disagio, nella loro ingiustizia. Le battute ripetute creano ossessione.
La sua morte accoglie la teoria che da qualche anno si fa strada: non fu suicidio, ma un colpo di pistola sparato in modo accidentale da un ragazzo che amava giocare con le armi. Lui non ne fece mai parola, forse vedendo nella morte una liberazione dal suo tormento.
Suo fratello Theo morì sei mesi dopo; la sua vedova si adoperò perché l’opera del pittore venisse apprezzata. Caso curioso, la governante cui restituì un carnet pieno dei suoi disegni non lo aprì mai e non seppe di quale enorme tesoro l’aveva omaggiata.
Probabilmente questo film si avvicina molto alla realtà. Ma io preferirei immaginarlo camminare sereno nei campi e ritrarre fischiettando la natura che tanto seppe ispirarlo, circondato da amici che come sogna all’inizio del film gli offrono amicizia, ospitalità, un buon bicchiere di vino e una fetta di pane. Forse adesso, dall’altra parte, è così.
Di recente avevo visto la mostra di Vicenza “Tra il grano e il cielo”, ne parlo qui e l’allestimento multimediale alla Promotrice di Torino, spostato poi in altre sedi tra cui Verona (vedi l’articolo)